Monday, September 22, 2008

Un uomo estremamente sgraziato

Eh, si, il 4, quello lì sgraziato con quella fascia orrenda in testa...sono proprio io!

Sunday, September 21, 2008

+1, -1...1!

Settimana scorsa non parlai della partita. Giocammo contro Lainate e una mista Varese/Diavoli Rossi, perdendo entrambe le partite. La prima, in particolare, non l'ho proprio giocata bene, concedendo in avvio di partita un buco enorme all'apertura e lasciandola libera di andare a segnare. "Billie! Svegliati!", e di contrò Mosè che mi fa: "Poco male, Billie, hai tutta la partita per rifarti". Ciònonostante, un altra cazzata (non così costosa) e tanto nervosismo, e un po' troppa fiacchezza nell'uno contro uno, e tanta frustrazione. No, ero troppo disorientato e non posso dire di aver giocato bene. L'unica cosa bella è stato un placcaggio su un uomo senza palla, fatto per esorcizzare questa frustrazione. "Fanculo, che gli arrivi o no la palla, io lo tiro giù!".
Negli spogliatoi, Dervino parla. "In mischia stiamo giocando in 6+1, perchè da Billie non mi aspetto molto, mi va bene tutto quel che riesce a fare". Commento che mi ferisce un po', ma pazienza. Cerco di rilassarmi, in vista dell'altra partita, ed è tutta un'altra cosa. Placco, giro i placcati, impedisco l'uscita di qualche pallone, mi faccio dare un po' di botte, corro. Alla fine del secondo tempo sono stracotto, perdiamo. Ma fanculo, almeno in questa partita posso dire di aver dato tutto.
E ieri Torneo di Verbania. Con sulle spalle il fatto di essere campioni uscenti. Frago si è fatto male durante la partita con Varese, e io mi sacrifico: seconda linea, con il numero 4. Brutta storia per le mie orecchie e faticosa per spalle e schiena. Paolino, il capitano, ci dice subito: "Siamo questi qua, ma non importa". Tutto il torneo lo giochiamo in 14. Prima pareggiamo contro il Monza, poi battiamo Novara con una bella partita e ci guadagniamo la finale. In finale giochiamo contro i Braves de Comptoir, una squadra francese che aveva spadroneggiato nel suo girone. Noi siamo carichi, e concentrati, e abbiamo una voglia incredibile. Nel giro di 8 minuti gli facciamo tre mete (grande Bimbo!) e poi "amministriamo" il risultato. A fine primo tempo, guardia in un raggruppamento sui loro cinque. Salgo, il mediano la passa, ma qualcosa nelle mie gambe mi dice di accelerare ancora di più. E arrivo a parare (di faccia) il calcio di liberazione della loro apertura, che però supera la linea di pallone morto. Il primo tempo finisce così, e io mi sento carichissimo. Nel secondo tempo c'è tanta tensione, loro cercano di buttarla sul nervosismo e sulle botte, ma noi resistiamo alle provocazioni. Però abbiamo i coglioni girati e, nonostante il giocatore in meno che abbiamo in mischia, decidiamo di carrettarli. E li tiriamo indietro così tanto che io e Mone, l'altra seconda, finiamo di faccia a terra, 5-6 metri davanti alla ruck che si era già formata. La partita finisce, abbiamo vinto di nuovo il torneo, una coppa bellissima che verrà festeggiata anche con un Billie Go. L'allenatore ci dice: "Bravissimi, avete vinto, giocando tutto il torneo in 14". Enzo mi dice: "Non so se riuscirai a fare tutta la stagione così, ma me lo auguro, stai facendo delle belle partite!".
Festeggiamo, poi doccia, e Michi mi fa notare: "Stavolta ha detto che eravamo in 14, non in 13+1".
Verbania...siamo arrivati 1, giocando in -1, e non in tredici +1.

Thursday, September 18, 2008

Sotto il culo della rana (in fondo a una miniera di carbone)

In realtà non ho particolarmente voglia di parlare di questo libro di Tibor Fischer, visto che è la terza volta che lo leggo. Credo sia il mio libro preferito, o almeno sia tra i miei preferiti. Un capolavoro assoluto, fatto di humour nero, storia ungherese e emozioni fortissime. Quello che Fischer ha perso nei suoi libri seguenti. Quel di cui voglio parlare è il Blood in the pool match, una partita di pallanuoto che vide Ungheria e URSS fronteggiarsi meno di un mese dopo che i sovietici avevano soffocato nel sangue la Rivoluzione Ungherese del 23 ottobre 1956. Miei primi giorni nel team di Storie di Sport, accenno a Christian la mia intenzione, ormai viva da mesi, di scrivere qualcosa su questa partita. Lui mi dice che era già in progetto e, entusiasta, rigira il compito a me. Io decido che devo rileggermi Sotto il culo della rana, e me lo faccio restituire da Enzo, a cui l'avevo prestato e che non l'ha mai finito. E me lo rileggo, scoppiando in lacrime calde sul treno che da Roma mi riportava a Nord, e dove ho buttato giù la prima frase dell'articolo. L'ho citato come fonte storica (l'ultimo capitolo, guardacaso l'unico intitolato con un giorno invece che un mese, 23 ottobre 1956, è storicamente ineccepibile nel ricostruire i fatti di Budapest), nonostante sia un romanzo. L'articolo lo trovate qua:


mentre del libro voglio citarvi la dedica, che ho sempre trovato stupenda:

Per tutti coloro che hanno combattuto
(Non solo nel '56. Non solo in Ungheria)

Thursday, September 11, 2008

La famiglia Winshaw

Me ne stavo in giro per Cantù a cercare di capire tariffe di cellulare e simili. Entro in un Mediaworld e trovo La famiglia Winshaw di Jonathan Coe a sei euro. E non me lo lascio scappare, perchè adoro Coe, e ho tanto amato il suo The Rotters' Club (La banda dei brocchi). E, al contrario di quanto accadde con Il Circolo Chiuso, Coe non mi ha deluso: un libro perfetto, che unisce le cose che preferisco dello stile dell'autore. Il modo che ha di infilare la sua storia e i suoi personaggi nella Storia vera e propria, dando così ai suoi libri anche un valore di studio sociale. Il modo che ha di far quadrare tutto, di non lasciare nulla al caso, quella perfezione che non ha nemmeno uno sbaffo. E poi il modo in cui utilizza altri "mezzi di comunicazione" nei suoi libri, citando da libri esistenti o fittizzi, passando dalla narrazione all'articolo di giornale, a sceneggiature di film, canzoni, opere teatrali, telegiornali...qualsiasi cosa gli venga in mente. E la storia degli avidi Winshaw e di Michael Owen sono fantasticamente condotte, dandoci quella sensazione di essere intrappolati in un gomitolo, e che le dita degli Winshaw arrivino in ogni angolo dell'esistenza, a tormentare e saccheggiare, attraverso la loro follia, lasciando una "striscia di distruzione" lungo il loro passaggio. Tra le due citazioni messe da Coe a inizio libro, mi ha colpito molto quella presa dalla canzone Yuri Gagarin di Louis Philippe (il cosmonauta è uno dei leit-motiv ricorrenti del libro): "'Meet me' / He'd said and forgotten / 'Love me' / But of love we are frightened / We'd rather leave and fly to the moon / Than say the right word too soon / We'd lose our cruel strenght / We're so proud to waste a chance".

"Non puoi spegnermi," disse.
"Scusa?"
"Dico che non puoi spegnermi."
Fece cenno alle mie mani. Mi ero riseduto nella poltrona di fronte a lei e, senza rendermene conto, avevo raccolto il telecomando del videoregistratore. Che ora era puntato verso di lei e il mio dito era andato alla cieca verso il tasto "pause".

Wednesday, September 10, 2008

Back to Basics

Un giorno ebbi un'opportunità. Scrivere, per una rivista nazionale, pagato. Ricordo la soddisfazione nel leggere il mio nome sotto il titolo dell'articolo, nel vedere il pezzo sulla pagina, i messaggi sorridenti di tanti amici (i cui sorrisi ho l'impressione di sentire sempre meno, alle volte) che si complimentavano con me e che soprattutto, condividevano una grande emozione con me. Gente che aveva braccato ogni edicola per poter vedere il mio articolo pubblicato. Era un periodo di "crescita" per me e a ogni passo sentivo vicini gli incoraggiamenti di tante persone. Non che ora mi senta solo, intendiamoci.
Ricordo la delusione quando, due numeri dopo, acquistai nuovamente il giornale e non trovai il mio articolo. "Mi devo essere sbagliato", e lo sfogliai, ansioso, tre o quattro volte prima di arrendermi. Ricordo le telefonate, le e-mail, la difficoltà di reperire la redazione e alla fine la mia resa. Quell'estate, grazie ad Aska, scrissi articoli che ancora adoro rileggere, avevo anche l'opportunità di fare un articolo per un quotidiano nazionale e per qualche altra collaborazione. In Irlanda, nei momenti solitari che mi offriva Galway, prendevo appunti per narrare la Coppa del Mondo: stavo preparando gli speciali di presentazione del girone che sarebbero apparsi su Rugby Union.
Poi, mi ricordo il senso di vuoto. La delusione di rendermi conto che la rivista non mi aveva pagato e il realizzare che non l'avrebbe mai fatto. Non è per quei 90 euro, intendiamoci, che comunque mi avrebbero fatto più che comodo. E' proprio il fatto di rendersi conto che di quel lavoro, la prima opportunità "vera", in realtà non fregava un cazzo a nessuno. Che l'avevo fatto unicamente per la gloria (motivazione più che nobile, per l'amor del cielo, ma non quando le prospettive comprendono anche altro). Pian piano l'entusiasmo scese e, tra lavoro e università, si perse abbastanza la mia voglia di scrivere di rugby. Rugby Union chiuse i battenti e, per diversi mesi, solo il sito della mia squadra ebbe l'onore di ospitare i miei articoli. Me ne rendo conto solo adesso. Avevo perso il piacere di scrivere di rugby, di fare ricerca, di scovare storie.
Credo di averlo ritrovato, in un certo senso. Ho iniziato una nuova collaborazione, con il sito Storie di Sport. Spero che un giorno mi troverò a ringraziare di cuore Christian (il capoccia del sito), ma anche Aska, per cui scrissi gli articoli cui sono più affezionato, per gli stimoli che mi hanno dato in quel senso. Per ora, sono fiero di presentarvi il mio primo articolo per Storie di Sport:

Tuesday, September 09, 2008

Studs deep

Amatori Tradate - Novara 53-7
Verbathlon, Verbania

Energy, Enthusiasm, Confidence and Pride

Diamine, non ne avevo ancora parlato. Imperdonabile, davvero imperdonabile. Martedì, riunione tecnica di mischia. "Siamo contati. Tu, Billie, sei dei nostri. Tecnicamente non sei ancora pronto, ma atleticamente ci sei". Io annuisco, mi sento anche un po' arrossire. E poi via, in campo, a provare touche e giocate. Venerdì provo a lanciare: mancano i due tallonatori. Sono carico, anche quando si scopre che Bimbo c'è, e quindi non devo lanciare o fare il tallonatore. Domenica, alle 6 e 30, sveglia. Un messaggio arriva, proprio mentre mi sollevo dal letto, a rischiararmi la giornata. E poi, colazione, Sunnyside of the Street, e via verso Tradate, poi verso Verbania. Mentre arriviamo e ci cambiamo, scende un acquazzone. Campo fradicio e palla scivolosa, ma temperatura perfetta per giocare a rugby. E io parto flanker, per la mia prima stagione con buone prospettive di gioco in prima squadra, da terza linea. Notando con piacere che nelle gambe ho l'energia necessaria e, pian piano, riorientandomi su un campo da rugby. Mosè che mi incoraggia durante tutta la partita, un faro grosso così che poggia le chiappe sulla mia spalla. Mi mangio una meta nel primo tempo, nello stesso punto dove me n'ero mangiata una con la Biss contro il Borgomanero. Poi in un'azione il cervello si sovraccarica e finisco per mollare una palla-omo al povero Abe, ignorando il buco enorme che avevo davanti. Negli ultimi venti minuti da tallonatore, la prima linea avversaria mi centrifuga un po'. Però resisto, stringo i denti, non mollo, e le mie le porto a casa. Però sento di essere a sostegno. E a un certo punto Junk mi smolla un passaggio pessimo. Io ho voglia di correre, non di tuffarmici sopra, e allora mollo un calcione e parto all'inseguimento. Uno del Novara cerca di tuffarcisi sopra, e io ne tiro un altro e continuo a correre: nei pressi dell'area di meta riesco a mettere i tre novaresi che cercano di recuperare il pallone che ho calciato io, il MIO pallone, sotto pressione, e placco il portatore di palla planando in area di meta, poi mi rialzo cercando freneticamente dove sia il pallone. L'arbitro fischia, una mischia sui cinque a nostro favore, e i compagni mi festeggiano. L'adrenalina di quell'azione non scende più fino alla fine, e la voglia di braccare palloni, di farlo ancora, di aggredire nuovamente l'area di meta sale. Per stavolta, due belle occasioni, ma niente di fatto. Però la soddisfazione di aver di nuovo affondato i tacchetti (sistemati con amorevole cura il giorno prima) in un campo da rugby (e che campo. Vero Bimbo? "Verbania, il tuo prato verde è una vera merda" "Eh, magari"). Fanculo, quest'anno ci sono anch'io!

Tuesday, September 02, 2008

The Deportees

Sempre detto io, che Roddy Doyle va meglio sulla breve distanza. Che nei libri o nelle saghe lunghe, dopo un po' tende a trascinarsi e diventare noiosetto e ripetitivo, e vagare senza capire dove andare a parare. Ed eccomi qua con il suo ultimo libro, una raccolta di racconti dal titolo The Deportees. Racconti scritti per il giornale multiculturale irlandese Metro Eireann, gestito da due nigeriani. Racconti che parlano di un Irlanda multiculturale dove è all'ordine del giorno che, come dice lo stesso Roddy Doyle nella prefazione, "qualcuno di vecchio incontra qualcuno di nuovo". E nei racconti Roddy Doyle fa venire fuori tutto: la paura del diverso, l'ignoranza di un popolo verso l'altro, la freschezza di una nuova conoscenza, pregiudizi, amori, incomprensioni e screzi. E si passa da Home to Harlem, dove un nero irlandese cerca una tesi di laurea, un nonno di cui non conosce il nome e una sua identità a New York, a Guess Who's Coming for the Dinner, in cui l'apertura mentale di un padre viene messa a dura prova dal ragazzo nigeriano invitato a cena da una delle figlie. Da New Boy, che racconta il primo giorno di scuola di un ragazzino di colore che deve imparare a gestire un nuovo ambiente e nuove conoscenze, non tutte positive, a I Understand, dove la persona di colore che deve gestirle non è più un bambino di quinta elementare, ma un adulto che si trova a fare i conti con problemi molto più seri. E infine il racconto che da il titolo al libro, The Deportees. Ricordate The Commitments? Il manager, Jimmy Rabbitte? Ecco, ora Jimmy Rabbitte ha moglie e figli. Ma la scintilla dentro di lui non si è ancora spenta e, improvvisamente, decide che deve fondare un nuovo gruppo. E fonda la band più multietnica del pianeta: un batterista russo, un trombettista e un fisarmonicista rumeni, un chitarrista, una bassista punk e un cantante irlandesi, una chitarrista spagnola, un cantante sudafricano e un percussionista nigeriano. Stavolta la musica di Dublino non è più il soul, stavolta da Barrytown escono le Dust Bowl Ballads di Woody Guthrie, però. Da quel racconto, estraggo la nostalgia di Jimmy Rabbitte per i bei tempi passati e la faccio mia:
It was months since he'd been to a gig. Months. He used to go to gigs all the time. He used to make gigs. He'd managed bands, some great ones. There was The Commitments. ('The best Irish band never recorded' - d'side. 'Shite' - Northside News.) There was The Brassers. ('Sex and guitars' - In Dublin. 'Shite' - Northside News.) Great days, when twenty-four hours weren't enough, when sleeping was a waste of time.
Ma non posso non citare il ritorno di uno dei miei personaggi preferiti mai creati da Roddy Doyle, Mickah Wallace, ex-batterista e buttafuori dei Commitments, riassunto da Jimmy Rabbitte in seguito alle telefonate di un maniaco sul numero messo negli annunci per formare la band:

And he delivered for Celtic Tandoori, the local takeaway. Fat Gandhi, the owner - real name, Eric Murphy - gave Mickah three nights a week.
- We go to the same church, said Mickah. - He's sound.
Mickah was a born-again Christian.
- It's been the makin' of me, m'n. I owe it all to the Lord.
Jimmy told him about The Deportees, and about the late-night/early-morning phone caller.
- What would the Lord do about it, Mickah? said Jimmy.
- Hammer the shite out of him, said Mickah.