Saturday, May 31, 2008

What becomes of the broken nosed?

Ultimo allenamento ufficiale dell'anno.
Manco l'allenatore c'era.
Quattro gatti, partitella a rugby league.
L'estremo placca un novellino a ribaltare.
Piantandomi il di lui cranio dritto sul naso.
"Ahia, ahia, cazzo, fa male, ahia, merda, cazzo!".
Più tanti improperi rivolti a personaggi di fama biblica.
E sangue, tanto sangue.
Il Prez me lo raddrizza, e io me lo sento come sbriciolato.
Mi sa che stavolta è proprio rotto.

Più tardi, pronto soccorso, il dottore chiede come mi son fatto male:
"Allenamento di cosa?"
"Rugby"
"Sempre quello è" dice, con il tipico fare diffidente dei dottori per la palla ovale, mentre scrive sul referto "ALLENAMENTO DI RAGBY".
E io sono molto tentato di dirgli: "Sempre quello sarà, ma ancora non hai imparato a scriverlo"!

Friday, May 23, 2008

I'm 22 now but I won't be for long

Stanno per finire, i miei primi 22 anni. Non potrò più cantare il pezzo di cui sopra o sperare di poterlo cantare un giorno con l'età giusta per cantarlo. Domenica passo ai 23 anni (o, come crede Muggsie, ai 36). Come ogni volta, comincio a cercare di capire i cambiamenti che ho fatto, a tirare le somme, a capire dove son cresciuto. Ed è stato un anno incredibilmente intenso, quello che ho appena passato, da quel punto di vista.
Molto ha cominciato a muoversi, un po' tipo domino-rally, a valanga, a partire da Belfast, Derry e Galway. Viaggiare aiuta a crescere, in diversi modi. Vedere posti diversi, abituarsi a modi di vivere diversi, portarsi dietro poche cose, fare a meno di tante persone, vedere cose nuove. L'Irlanda del Nord per me ha rappresentato una sorta di perdita dell'innocenza, rappresentata da un duro e angosciosissimo giro per le peggiori strade di Belfast. Posti dove ho visto e sentito cose che mi hanno scosso, si son prese una parte di me, forse mi han fatto diventare un po' più uomo e un po' più cosciente del mondo in cui vivo. Delle mie posizioni, delle mie convinzioni. Mi ha fatto rivedere il mio modo di pensare.
Diventare grandi è anche separazione, trovarsi faccia a faccia con la consapevolezza di dover far conto sulle proprie zampe. Un cordone ombelicale che ho reciso a Cromwell Street, di fronte all'Helga, l'ostello dove dormivamo a Belfast. Valigie fatte, saluti commossi con gli amici. Phoebe (lo stesso nome della sorellina di Holden, non penso sia un caso, visto che è spesso stata una "sorella maggiore") mi accompagna fuori dalla porta per salutarmi. Mi vede commosso, sente la mia voce tremare e un velo di malinconia velarmi gli occhi e dice: "Billino, non piangere". Io senza dir nulla mi son voltato di scatto, lacrime agli occhi, diretto verso la stazione dei bus di Belfast (ignaro, tra l'altro, di un paio di occhi che mi curavano con affetto già allora).
Mi son così diviso dai miei amici, ho voluto seguire un vento che mi portava lontano da loro, dalla lingua italiana, da Dublino. Un vento che mi teneva in Irlanda del Nord ancora un po', mi mandava a ovest, verso l'Oceano. Verso Derry e Galway e verso tre giorni in solitaria. Io, il mio accento da scozzesaccio e le storie che sento tatuate sulla mia pelle in qualche modo. Come il gigante Pintecaboru, che si cibava di storie e si faceva tatuare sulla pelle le mappe dell'universo, vere o immaginarie, da ogni viaggiatore o ogni persona che capitasse sul suo pianeta. Ecco, mi son nutrito di luoghi, di storie, di quel poco che una persona incontrata casualmente poteva darmi. Delle sue parole, dei suoi gesti, delle storie che raccontava. E di quello che certi luoghi sapevano dire, come la magnifica vista del Bogside di Derry da sotto le mura medievali della città.
Ho dovuto fare i conti con me stesso, scoprendo che non sono poi malaccio, anche se su certi difetti bisogna lavorare. Sono cresciuto quei 5 centimetri dentro, in Irlanda del Nord, e probabilmente la mappa di quella terra mi resterà tatuata sotto la pelle a vita. Mi ha sempre affascinato l'idea dei riti di passaggio delle tribù primitive (mi piacerebbe leggere qualche libro a riguardo, penso), e il fatto che molte volte il tatuaggio fosse il modo per marchiare chi era diventato uomo, magari dopo aver passato nei boschi una settimana da soli perchè trovassero se stessi e diventassero uomini.
Questo è stato il mio rito di passaggio, la mia agogè. Trovarmi solo in mezzo a un mondo sconosciuto, senza passare il tempo con la gente che si conosce, che parla la nostra stessa lingua. Con la mia vita chiusa in uno zaino e un paio di tasche, e soprattutto all'interno della mia pelle. Come una specie di calcio nel culo atto a far accelerare la mia crescita e spingere gli eventi ad accadere. Al ritorno a casa la telefonata di mia sorella e la notizia che sarei diventato zio.

Thursday, May 22, 2008

No!

Col cazzo che adesso faccio un post su aerei e areoporti. E nemmeno sulle fermate di metropolitana perse. Io sorrido, e tanto mi basta!

Sunday, May 18, 2008

The bitter soil we've grown out of


Tradate Biss - Voghera 0-22
Uslenghi, Tradate

Terra. Questa terra è sempre stata nostra. E' l'orgogliosa terra dei nostri padri (fratelli, in questo caso). Appartiene a noi e a loro e a nessuno degli altri. La terra del nostro campo è infida, dura, inclemente. E' un brutto campo, ci si fa male, è duro e non c'è erba, non è bello andare a terra. E su quel campo ci vado a terra da tre anni e mezzo, due, poi tre volte a settimana. Mi è capitato anche di andarci a terra qualche domenica. E ci avevamo giocato un derby con la Biss. Biss che in casa non ha mai fatto un punto, e purtroppo la situazione permane. Si ospitava il Torneo dei Longobardi.
Prima partita ufficiale in casa. Per la prima volta sul campo dove ci facciamo il culo, dove sputiamo l'anima tre volte a settimana. Il campo dove mille volte ho dovuto fare il magazziniere tuttofare per la prima squadra, dove mille volte ho tifato i ragazzi che si allenano con me durante la settimana e che scendono in campo la domenica, perchè tecnicamente o fisicamente più dotati, a portare su quel campo i loro, ma anche i miei, sforzi. Stavolta ero io, con tutta la Biss, a portare in campo gli sforzi del Tradate. Sotto la pioggia battente, di fronte ai nostri compagni, i nostri amici, i nostri tifosi. Arbitrati dal nostro allenatore. A rendere gli altri, sempre disposti a graffiarsi su questo campo così inospitale assieme a noi, orgogliosi di noi, per una volta.
Mi auguro nonostante il risultato lo siano stati. L'unica squadra a presentarsi è stato il Voghera, battuto sei giorni fa. Sei giorni fa: ogni partita è una storia a sè. E in sei giorni ne son cambiate di cose. Loro han giocato bene, ordinati e disciplinati. Noi abbiamo subito un po' inizialmente. Io ci ho messo una manina. Sotto a una palla che loro cercavano di schiacciare nella nostra area di meta: sollevato, mischia, ancora 0-0. Alla fine se ne sono andati dalla nostra metà campo con la meta che cercavano. Noi abbiam cercato di rimetterci in corsia e di giocare nella loro metà campo, facendo anche benino. A un certo punto una palla vagante mi rimbalza davanti. Le mollo un calcione e mi metto a rincorrerla. Loro pasticciano e la portano a rimbalzare nella loro area di meta. Uno dei loro annulla, ma a me sembra gli sia scivolata la palla all'indietro prima di schiacciarla. Mi tuffo sopra all'ovale, sperando che sia meta. Momento emozionante, ma l'arbitro da per buono l'annullato, ed è mischia. E noi facciamo fallo e siamo ricacciati indietro. E lì cominciamo a perdere convinzione e concentrazione. Troppi falli, concentrazione bassa, e concediamo altre due mete.
A un quarto d'ora dalla fine Dante esce, un po' amareggiato. Ci ha messo tanta grinta, ma la frenesia gli ha giocato brutti scherzi, ed è stato uno dei più confusionari in campo. Tocca a me capitanare l'ultimo quarto d'ora. Ho continuato a dare indicazioni e cercare di motivare i miei fin dal calcio di inizio, continuo a farlo. Subiamo la quarta meta e, dopo averla subita, si risveglia un po' di orgoglio, e ci rimettiamo a giocare, a provarci. E loro ci concedono qualche calcio in più, riusciamo a fargli mettere un piede indietro. Qualcuno vorrebbe finirla, con un calcio in touche, ma io no. Non abbiamo nulla da perdere, siamo lì per giocare. Se ci fanno la quinta amen, ma voglio continuare a cercare fino all'ultimo la meta per noi.
Finisce così com'era, sul 22-0. Il tè caldo, la birra offerta, due chiacchiere con gli avversari e quattro scherzi con gli amici e i compagni fanno scendere l'amarezza del boccone. Qualcuno dice: "Bravo Billie, ti ho visto grintoso", strappandoti un sorriso. Doccia, spogliatoio con calma. Ultimo a uscire, stremato. Le braccia che penzolano, pesanti come due lastre di ghisa. Birra, salamella, patatine, una staffetta alcoolica (Tradate resta imbattuto nella specialità).
Poi mi si para di fronte l'allenatore. Mi porge la mano, per stringere la mia. "Billie, devo farti i complimenti per la partita che hai giocato oggi". E mi dice che nonostante i miei soliti limiti tecnici o fisici, è rimasto ben impressionato dal cuore che ho messo in campo. "Se solo avessi tre o quattro giocatori con il tuo cuore...oggi che arbitravo ti ho visto dal campo, e ci hai messo veramente un cuore grosso così". "Grazie, ne sono contento", balbetto a malapena, poi giro le spalle e mi allontano, quasi imbarazzato dal complimento, con le lacrime che spingono da dietro gli occhi e quel cuore grosso così che scoppia di felicità e orgoglio nel petto. Era tutto quello che avrei potuto chiedere a questa giornata.

Monday, May 12, 2008

I've been beat up, but I'm not down

TraBorgo - Seregno 0-5
TraBorgo - Lainate 0-22
TraBorgo - Voghera 10-0
Campo Comunale, Velate

You can crush us, you can bruise us but you'll have to answer to the guns of Brixton

Velate. A Velate avevo fatto il mio esordio in campionato, nel dicembre del 2005. Fu anche il mio esordio assoluto in mischia, mi ero sempre allenato da trequarti e l'allenatore mi spedì a fare il flanker. Segnò l'inizio del mio indissolubile amore per il mondo dei primi otto uomini. Ero un piccoletto con la pancetta che ci metteva passione e che era a malapena in grado di tenere il campo. Ora la pancetta è scomparsa (sigh), il campo lo so tenere meglio, la mischia è il mio mondo. La passione è rimasta invariata. Terza giornata dei Longobardi, Biss + Borgomanero. Prima partita da dimenticare, contro Seregno. Dopo trenta secondi vanno in meta, e vincono 5-0, grazie a quell'unica marcatura. Io a metà primo tempo prendo una gomitata in faccia da Jerome e inizio a zampillare sangue dal naso. Mentre mi tampono vedo una brutta partita: zero pressione, zero aggressività. Rientro nel secondo tempo, e siamo un po' più convinti, ma non basta. Costruzione poca, meglio nei raggruppamenti.
La seconda partita è contro una "rivale" storica. Lainate. Contro Lainate ci abbiam giocato tantissime volte, noi della Biss. Dante, il nostro capitano, è di Lainate. Si sciroppa 120 km alla settimana per allenarsi con noi, invece di giocare con la squadra del suo paese. Squadra che l'ha sempre trattato male, usato come "sacco dei placcaggi" e convinto che non avrebbe mai ottenuto niente nel rugby. Dante non avrà grandi doti fisiche, nè tecniche, nè una gran vista, e forse non è neanche il più coraggioso dei giocatori (ma ultimamente non l'ho mai visto arretrare). Però Dante ha un cuore grosso così, cazzo, e quelli lo pigliano per i fondelli. Non mi va giù. E' per questo che quando dice che sta fuori per il problema alla gamba, e che nella partita contro Lainate il capitano (e tallonatore) sono io, dico ai miei compagni: "Ragazzi, questa la giochiamo tutti per Dante". Ci asfaltano, 22-0. Però è gente che gioca in serie C, a buon livello, e noi siamo senza qualche giocatore importante. Ci mettiamo grinta, coraggio, aggressività e, nonostante la differenza di livello, usciamo dal campo a testa alta. Tra le loro fila un numero 8, giovane promessa. L'allenatore, quando avevano giocato contro la nostra prima squadra, aveva approntato delle "trappole" per arginarlo. Io mi son concesso il lusso di placcarlo rubandogli una palla. A un certo punto, palla-omo, diretta a me. Mi tirano un placcaggio assassino, una botta veramente brutta, là dove fa più male, il basso ventre. Un anno fa mi era capitato, in avvio di partita, di ricevere una botta simile. Giocai pochi minuti dopo la botta, facendomela letteralmente sotto, e lasciai il campo sentendomi un vigliacco. Ora a terra, stringo i denti per il dolore, raccolgo il fiato e mi rialzo. No, oggi non mollo neanche morto, anche se in mischia mi stan stritolando.
La terza partita. Dobbiamo vincerla. Siamo stufi di pareggi, di sconfitte, di rispondere ai "com'è andata?" dicendo "Eh, perse tutte". E Voghera sembra alla portata. Torno al mio posto da numero 8. Placco, rubo nei raggruppamenti, e tutta la squadra sta giocando bene. Ci installiamo nella loro metà campo. A un certo punto loro tentano di fare una maul sui loro 22. Riesco a mettere la mano sul pallone, spingo, e mi stacco dal raggruppamento con l'ovale in mano. Ad aspettarmi un flanker samoano a braccio teso. Si, gran botta, ma io rimango in piedi con la palla, e corro. Rompo un altro placcaggio, sento che stiamo per farcela. Tiro una spallata a uno e imposto una maul, loro la fan crollare. E' punizione, giocata veloce su Jerome, che va in meta. 5-0. "Ragazzi, ancora così, torniamo di là, non è finita". E Lame "Crisantemi" stupisce tutti raddoppiando il punteggio con una meta di intercetto. Il primo tempo finisce 10-0, e io avverto i miei compagni: "A questi adesso sale la rogna ragazzi, noi non dobbiamo cedere di un millimetro mentalmente. Restiamo concentrati". Come avevo previsto, la loro aggressività sale, la nostra concentrazione scende. Troppe punizioni, loro prendono coraggio e giocano di più. Però noi non li facciamo passare. A tre minuti dalla fine rimango a terra con la caviglia dolorante. Il dottore mi intima: "Fermati. E' meno di una distorsione, ma hai preso una tacchettata forte sulla capsula dei legamenti".
I miei compagni mi portano a bordo campo, e io vorrei essere in campo con loro nei tre minuti successivi, mentre li guardo e fremo sulla panchina. Quando l'arbitro fischia, comincio a saltellare su una gamba, vado ad abbracciarli tutti. E' la nostra prima vittoria, dopo due anni di sacrifici, ha un sapore speciale. E ricevere una certa telefonata al ritorno, in macchina, e poter raccontare di aver vinto, nonostante quando ho riattaccato fossero in agguato gli sfottò degli altri tre occupanti della Clio, mi ha messo in volto un sorriso impagabile. Grazie ragazzi, e scusate se vi ho dovuti lasciare soli per tre minuti.

Friday, May 09, 2008

Death Or Glory

Finalmente l'ho finito. Verona, fine febbraio, siamo in un parcheggio, ridiamo, scherziamo e ci apprestiamo a mangiare. E Muggsie tira fuori un libro rosso e me lo consegna. Sulla copertina di fronte c'è una foto storica, 21:50 PM, di Pennie Smith. Nota ai più per essere la copertina di quello che ho sempre considerato il disco più importante di tutti i tempi, almeno per me, London Calling dei Clash. Il retro invece è la copertina del primo disco, appunto, The Clash. Il libro si intitola (in italiano, in inglese si chiama Passion is a fashion, da una frase di Joe Strummer) Death or Glory. Autore il giornalista musicale Pat Gilbert. E', manco a dirlo, una biografia dei Clash. All'inizio lo stile di Gilbert non mi prendeva: ho sempre trovato il giornalismo musicale un po' troppo sensazionalista, e Gilbert non sembrava esserne esente. Però pian piano la storia mi ha completamente risucchiato: era il libro che ho sempre cercato, che speravo mi permettesse di capire meglio i Clash, sia dal punto di vista "cronologico" sia da altri punti di vista (valore aggiunto di quanto scrive Gilbert i tanti riferimenti culturali cui riesce a collegare brani e accadimenti). Un'altra cosa su cui ho potuto indagare è stata la Clash-Aberdeen connection ("Perchè ogni volta che ho a che fare con dei Glaswegians ne trovo sempre uno che si è visto i Clash ad Aberdeen?" scrissi in un vecchio post). L'unico concerto, se non sbaglio, tenuto dal gruppo ad Aberdeen è stato quello del 5 luglio 1978, prima del quale Johnny Green, tour manager del gruppo, rischiò di morire sotto gli occhi della band. Da Aberdeen doveva iniziare il tour britannico di Combat Rock, che fu cancellato perchè Strummer fece perdere le proprie tracce: "Bernie e Kosmo tentarono l'azzardo: andarono ad Aberdeen per la prima data del tour, ma quando Joe non si presentò per il concerto risultò evidente che bisognava annullare tutta la tournée britannica. Jock Scott - che come tutti gli altri, era completamente all'oscuro di quanto stava realmente accadendo - era partito da Fife in autostop per andare al concerto. Fu sorpreso quando vide Baker che guidava il furgone del gruppo e tornava a Londra sulla carreggiata opposta".
Beh, insomma, mi ha fatto bene "ripassare": i Clash son stati il mio gruppo preferito da sempre, ne ho parlato anche in un altro post in cui raccontavo della prima volta che ho ascoltato i Clash. Il libro, prima di un bellissimo "addio" a Joe Strummer, chiude con una frase dello stesso: "Abbiamo dato il 110 per cento, ogni giorno. Ma quando incontri questa gente, persone che ti dicono che hai avuto qualche effetto sulla loro vita, allora senti che ne valeva assolutamente la pena". E di sicuro i Clash hanno avuto un bell'effetto sulla mia vita, quella di uno che è diventato diciottenne sulle note di Police & Thieves, che ha sempre considerato i Clash una grande influenza e qualcosa che l'ha aiutato a crescere. Tanto tempo fa volevo organizzare un tributo ai Clash con gruppi locali. Progetto che non andò ahimè mai in porto, e per cui fu registrata unicamente una canzone, una geniale versione di Career Opportunities (del grande Massi Lanciasassi dei Leeches), ma che per me significò molto: il passaggio da un adolescente che si lasciava trascinare, che se ne stava zitto, a un ragazzo che si dava da fare, cercava di realizzare sogni e progetti, iniziava a urlare e cercare di farsi sentire. And when I first shouted White Riot / I knew that was a riot of my own / I knew that was a riot of my own / I know this is a riot of my own!, canto in Out of a coma, e canto anche Listening to Tommy Gun, Stay Free and Koka Kola / I thank you for waking me up out of a coma. E' una cosa che si ispirava a un'intervista a Paul Simonon vista in un documentario sui Clash, in cui il bassista parlava della forte influenza di Joe Strummer sulla vita di molta gente, del fatto che molti si fossero sentiti tirati fuori da uno stato comatoso proprio dai Clash. Parole da cui mi son sempre sentito rappresentato. Nell capitolo Epilogo - un addio a Joe, Gilbert dichiara: "Le chat room di Internet furono sommerse da elogi funebri per il cantante. Aveva toccato le vite di centinaia di migliaia di persone: a giudicare dal numero di ricordi personali, sembrava che avesse effettivamente parlato con ognuno di loro". Ed è un personaggio con cui qualcosa sento di averlo in comune. Dall'abitudine a cambiare nome (John Graham Mellor - Woody - Joe Strummer - e tra l'altro in un racconto che scrissi molto tempo fa il personaggio che in realtà ero io si chiamava Mellor Somoza Ramone) a una certa visione "fumettistica" delle cose. Anche iconograficamente i Clash hanno significato molto per me, porto questa foto a testimonianza: ultimo concerto dei Korova Milkbar, mia vecchia band. Maglietta di London Calling fatta a ferro da stiro (finchè non la persi a Bologna fu la mia maglietta da partita quando iniziai a giocare a rugby) e camicia con scritte a pennarello e bomboletta, stencil col nome della band. Tra le scritte, le più importanti sono due: sul colletto c'era scritto a indelebile STAND TILL YOU FALL (da Rebel Waltz, su Sandinista) e sulla schiena a bomboletta ANGER CAN BE POWER (da Clampdown, su London Calling).
Tornando al libro, il capitolo più folgorante per me è quello che racconta la lavorazione a London Calling, sotto la supervisione del leggendario produttore Guy Stevens. Un capitolo che mi ha rapito e lasciato sognante e che credo sia riuscito un po' a ricreare la sensazione di energia di quel disco, di quelle session. Un'altra parte bellissima del libro invece riguarda il giorno in cui i Clash han scritto Straight To Hell, una delle mie canzoni preferite:

La visione antimilitaristica di Joe raggiunse la sua epifania artistica in Straight To Hell (Dritto all'inferno), un'analisi potente e schiacciante dell'eredità della guerra in Vietnam, con l'agghiacciante verso indirizzato a un figlio della guerra americano-asiatico: "Lascia che ti parli del tuo sangue, bambino di bambù, non è Coca-Cola, è riso". Digby assistette alla genesi della canzone. "E' stata quasi tutta registrata in un giorno", dice. "Era il giorno prima del Capodanno 1981, giorno in cui era previsto che prendessimo l'aereo per tornare a casa. E' stato un rush folle e creativo. Ci hanno messo dei piatti da banda: Mick suonava la conga con le bacchette, che era una cosa abbastanza insolita, ma il suono era eccellente. Topper suonava le percussioni con le mani e roba simile: era estremamente complesso, un sacco di innovazioni".
"[Il giorno dopo] era Capodanno", dice Joe nel libretto di The Clash On Broadway. "Avevo scritto il testo rimanendo alzato tutta la notte all'Iroquois. Sono andato all'Electric Lady e ho registrato la voce su nastro, abbiamo finito verso mezzanotte meno venti. Abbiamo preso la metro dal Village a Times Square. Non dimenticherò mai l'uscita dalla stazione della metropolitana, appena prima di mezzanotte, in mezzo a cento milioni di persone, e ho capito che avevamo appena fatto qualcosa di veramente grande".

Thursday, May 01, 2008

Isabella

Isabella è nata il primo maggio. Alle 17 e 20, a Monza. Pesava 2 kg e 910 grammi, era lunga 49 cm. Suo zio si bevve alla sua salute tre bottiglie e mezzo di vino. Benvenuta Isabella, zio Billie non vede l'ora di conoscerti.